IN EUROPA NON ESISTE UNA DISCIPLINA UNIFORME DELLE TECNICHE DI PROCREAZIONE, TRANNE IL PRINCIPIO DELL’UTILIZZO DI GAMETI DELLA COPPIA PER LA FECONDAZIONE IN VITRO, STABILITO DA UNA COMMISSIONE DEL CONSIGLIO DI EUROPA. VARI INTERVENTI DEL PARLAMENTO EUROPEO NEL 1989 HANNO AVUTO COME UNICO OBIETTIVO QUELLO DI REGOLAMENTARE LA LEGISLAZIONE DEI PAESI MEMBRI RICHIAMANDO L’ATTENZIONE DEL LEGISLATORE SULLA MATERIA.
Si può dire che oggi in Europa esistono tre diversi modelli regolatori attraverso i quali è possibile inquadrare una classificazione:
1. Francia, Spagna e Portogallo sono esempi di un modello di tipo liberale, in cui è ammessa ogni forma di procreazione medicalmente assistita. Grecia, Russia, Ucraina e Gran Bretagna ove è lecita anche la maternità surrogata. Danimarca, Olanda, Belgio, Svezia e Gran Bretagna ove è ammesso l’accesso alle tecniche riproduttive anche a donne singles e coppie omosessuali.
2. Un modello intermedio è quello dei paesi di tradizione germanica: Austria, Germania e Svizzera, in cui la scelta dei legislatori si è posta sulla liceità limitata di tali tecniche, con il divieto di ogni forma di procreazione che provochi una divergenza tra maternità genetica e maternità biologica (affitto di utero e donazione di ovociti) e dunque in favore di una procreazione il più possibile naturale.
3. Un modello restrittivo che è quello che accomuna l’Italia a Lituania e Turchia, ossia un modello repressivo che vieta ogni forma di fecondazione in favore di una totalità tra genitorialità genetica, biologica e legale.
Le limitazioni delle tecniche di procreazione assistita sono state recentemente al centro del dibattito dopo che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è espressa negativamente in merito ai divieti di fecondazione e alle sue modalità previste dalla legge austriaca, accertando la violazione dell’art. 14 in lettura congiunta all’art. 8 CEDU (Commissione Europea Diritti Uomo). Le fattispecie concrete all’esame giudiziario erano due in un contesto giuridico quale quello austriaco:
1. Nella prima fattispecie la moglie sterile con totale incapacità mentre il marito fertile.
2. Nella seconda entrambi sterili.
L’unico modo per soddisfare il desiderio di avere figli era quello di ricorrere alla fecondazione in vitro.
In Austria l’accesso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita sono regolate dalla Fortpflanzungsmedizingesetz (FMedG), entrata in vigore nel 1992 che consentirebbe alle coppie il ricorso alla medicina riproduttiva con l’espresso divieto di ovodonazione (divieto sancito dal § 3 FMedG): possono cioè essere utilizzati esclusivamente gli ovuli prelevati dalla donna stessa.
La cronaca giudiziaria ha inizio nel maggio 1998 con i ricorsi diretti delle due coppie contro il sistema per espressa violazione degli artt. 8 e 12 CEDU (in combinato disposto con l’art. 14 CEDU). La questione passata successivamente al vaglio della Corte di Strasburgo si espresse nel novembre del 2007 dichiarando parzialmente ammissibili i ricorsi. La Corte prende in esame le fattispecie sotto il profilo della violazione da parte del legislatore austriaco del divieto di discriminazione di cui all’art. 14 CEDU in relazione al diritto al rispetto della vita privata e famigliare di cui all’art. 8 CEDU nella misura in cui il § 3 FMedG legittima il ricorso alla fecondazione, ma valuta come insufficiente l’argomentazione etico-morale ritenendo che esistano delle alternative al divieto dell’ovodonazione per evitare abusi intesi come commercializzazione e sfruttamento che la liberalità di tale metodologia comporti. La pronuncia della Corte ha colpito certamente il modello di disciplina delle tecniche di procreazione medicalmente assistita a liceità limitata. Se, infatti, in Europa la donazione è generalmente ammessa l’ovodonazione incontra maggiore resistenza. La Germania, intervenuta nel procedimento avanti la Corte di Strasburgo ha vietato la ovodonazione, pronuncia a cui si è unita anche la Svizzera ove la Legge federale sulla medicina della procreazione del 1998 prevede la donazione del seme esclusivamente tra coniugi. In Italia, dove vige un regime di assoluto divieto di fecondazione eterologa, la sentenza della Corte di Strasburgo ha suscitato grande interesse soprattutto tra quei cittadini contrari al divieto. All’indomani della decisione, si sono letti titoli quali: «L’eterologa è un diritto», «Il divieto di ricorso alla donazione di ovuli e sperma è una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo», «Duro colpo alla legge 40». Il testo della sentenza, impugnata dall’Austria avanti la Grande Camera, suggerisce, tuttavia, una lettura più cauta dell’opinione espressa a Strasburgo, che si compone di diversi profili.
Il tema è particolarmente delicato, poiché la rivoluzionaria scoperta del DNA e delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita hanno posto alcuni interrogativi su cui l’essere umano non si era mai trovato a riflettere e per i quali siamo carenti di strumenti.
I concetti di maternità e paternità hanno subìto una scomposizione: attualmente si può avere una madre o un padre giuridici, nella misura in cui tra lei o lui e il figlio sia sorto uno iuris vinculum; biologici, qualora sia stata lei a partorire il figlio ovvero sia stato lui a fecondare la madre a seguito di un rapporto sessuale; genetici, qualora sia stato l’ovulo di lei ad essere fecondato o il seme di lui a fecondare; sociali, qualora lei o lui abbia o eserciti di fatto la potestà genitoria sul figlio. È possibile che tutti i requisiti si trovino riuniti in una stessa persona, così come è possibile che un figlio abbia tre padri – visto che un padre biologico è necessariamente anche un padre genetico, mentre è escluso il reciproco per il caso di inseminazione artificiale –, oppure abbia quattro madri– visto che la pratica dell’affitto d’utero e la fecondazione eterologa rendono possibile che ci sia una madre biologica e una diversa madre genetica. Ciò può portare a conseguenze aberranti! La Corte in effetti, con la pronuncia, abbraccia il principio del tutto o niente, da una parte restringendo le possibili scelte di disciplina all’alternativa tra la completa deregolamentazione, visto che nessuno Stato è tenuto a legiferare in materia e a legittimare le pratiche di medicina della procreazione garantendo il diritto di scelta delle coppie; dall’altro ponendo il divieto assoluto di procreazione assistita visto però come la soluzione meno equilibrata. Al di là delle contraddizioni e delle letture poco chiare della sentenza, è importante capire il contesto in cui si muovono i legislatori odierni, per comprendere le ragioni di quelli di loro, come il legislatore austriaco, che pur ammettendo l’inseminazione eterologa hanno escluso l’ovodonazione.
Il diritto si è dovuto da sempre occupare di risolvere i problemi sollevati dall’impossibilità di accertare incontestabilmente la paternità, poiché il legame tra padre e figlio non nasce in modo «naturale», bensì è l’effetto che l’ordinamento giuridico riconduce alla presenza di determinati presupposti. Paradossalmente oggi è più semplice risolvere la problematica dell’attribuzione della paternità, che tanto ha fatto tribolare gli interpreti come prometteva già il brocardo «mater semper certa, pater numquam». Nell’ipotesi di fecondazione eterologa con ovodonazione, infatti, non c’è solo una scissione tra identità sociale e identità naturale, ma l’identità naturale viene ulteriormente scomposta in un’identità genetica ed una biologica. È arbitraria qualsiasi ipotesi di scelta tra quale delle due madri il diritto debba preferire per l’attribuzione delle prerogative proprie dello status giuridico. L’orientamento legislativo più diffuso in Europa è quello che in caso di fecondazione o affitto d’utero la questione dell’attribuzione della maternità è risolta con attribuzione della madre biologica: madre del bambino è colei che lo ha partorito. Rispetto alla paternità una dissociazione intimamente profonda come quella tra madre genetica e madre biologica, invece, non si configura affatto, poiché con la mediazione delle biotecnologie la figura del padre biologico viene semplicemente meno.
In Italia il divieto assoluto in merito all’accesso a pratiche di maternità surrogata, è posta dalla rigidità effettiva ed intenzionale della l. n. 40/2004 che, ponendo il divieto di cui all’art. 12, 6° co., punisce penalmente la sua violazione. Al di là delle intuizioni morali configgenti e degli aspetti contraddittori rilevabili nella l. n. 40/2004, si dovrebbe propendere per un intervento legislativo rispettoso dell’ethos sociale, quale frutto meditato di adesione collettiva, come una sorta di valori condivisi e responsabilmente sostenuti, per dare una risposta seria a quell’urgenza che vede l’emersione dei bisogni concreti e la criticità dei problemi e delle sofferenze ad essi correlati.
L’intervento della Consulta è risultato insufficiente; anzi ha alimentato ulteriori fonti di dibattito per dare una coerenza interna alla l. n. 40/2004. Si impone così una riflessione sullo ius condendum, che dovrebbe avvicinarsi al progetto di una disciplina necessaria e insieme mite, possibile ed insieme compatibile, «aliena dall’idea che la condotta tutta debba essere regolata e controllata». Così, non si tratta di salvaguardare la libertà individuale, bensì ci si dovrebbe porre l’obiettivo di giungere ad una disciplina che tuteli la libertà responsabile ed effettiva, interiorizzata e condivisa.
È evidente che imporre limiti così restrittivi, comporta un’incentivazione della clandestinità, il ricorso all’utilizzo di strutture aventi sedi in altri Stati, un freno alla ricerca nazionale e ad un uso consapevole e responsabile delle proprie capacità procreative.
Nella complessità del mondo attuale, si tratta di porre al centro la «persona reale» e non il «modello giuridico astratto», per dare a ciascun cittadino l’opportunità di esercitare responsabilmente la propria libertà, sensibile alle conoscenze possibili e ai vantaggi ricavabili da esse.

