Di Barbara Ciarcia Editoriali 17 aprile 2020 Non ci si riconosce più. Si sfugge pure agli sguardi di volti mascherati. Si evita il contatto, e adesso pure uno sguardo, un cenno di saluto degli occhi che parlano al posto delle labbra. Il contagio moltiplica la paura, e azzera la fiducia. Nel prossimo innanzitutto. La mutazione del virus è mutazione di espressione. La comunicazione non è più verbale ma gestuale, virtuale. La vita condizionata dalle regole della pandemia è così: amorfa, asettica, asociale. Non concede spazio alle emozioni. Insinua piuttosto i timori. La normalità non era certo una banalità. Era un segnale, seppur disturbato dalla frenesia della contemporaneità, di un’antica umanità. Qualcuno lo ha capito dopo averla persa. Chissà se mai più si tornerà a quella condizione che solo oggi ci appare come un’eccezione, l’unica che abbiamo veramente conosciuto e forse mai apprezzato fino in fondo. Il tempo della pandemia segna altri tempi, e svela la verità. La vita che ci aspetta sarà mappata, tracciata, ridotta ad una app. Sarà una vita a distanza, e di distanze. Sarà una vita dipendente da dati, e non più da date. Non ci saranno scadenze, ricorrenze, preferenze. Nessun luogo sarà veramente pubblico. Nessuno spazio sarà occupato. E’ vietato il ritrovo. E’ scontato il reclamo. Sarà una vita privata, nel vero senso della parola. Privata di affetti ed effetti. Il futuro sarà un test, e soprattutto un rebus. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Barbara Ciarcia Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Una surreale primave... Articolo Successivo Che fine ha fatto l&...