Di Paolo Speranza Persone, Territorio Beatles, persone, Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, territorio, xd magazine 12 dicembre 2017 Nella copertina più famosa della storia della musica pop, Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, fra le tante figure illustri e “miti” (della letteratura, del cinema, delle scienze, delle religioni) scelti dai Beatles figura un solo italiano. Anzi, un italoamericano, per la precisione un irpino: Sabato Rodia, muratore, nato nella frazione Ribottoli di Serino nel 1979 ed emigrato a undici anni negli Stati Uniti. Perché proprio lui? E chi era Rodia, che nella patria di adozione cambiò il nome di battesimo nell’inglese Simon? Nel cinquantesimo anniversario dell’ormai mitico disco prodotto dai baronetti di Liverpool l’interrogativo è risuonato nell’ambito dello SponzFest diretto da Vinicio Capossela a Calitri, dove il 24 agosto scorso una platea di oltre centocinquanta persone ha affollato il piccolo ed elegante Cinema Rossini, fresco di restauro da parte del Comune, per ascoltare (e vedere, con alcuni filmati d’epoca) la straordinaria e avvincente storia di questo nostro conterraneo, raccontata da chi scrive – che nel 2014 ne ha riscoperto la figura in Irpinia, recensendo l’importante volume Sabato Rodia’s Towers in Watts (Fordham University Press) pubblicato negli Usa a cura di Luisa Del Giudice con la collaborazione di 18 studiosi – e con il musicologo Michelangelo Iossa, grande esperto dei “Fab Four” ed autore del recente Love. Le canzoni d’amore dei Beatles, edito da Graus. Prevedibile il successo dell’iniziativa, alimentato dalla curiosità intellettuale per la vicenda di un uomo semplice, pressochè analfabeta e povero fino all’ultimo giorno, che su quella mitica cover compare, di profilo e con il volto bianco, accanto a un mito della canzone d’autore come Bob Dylan e a breve distanza da un Albert Einstein. E se la biografia di Sabato/Simon Rodia non dice molto, simile com’è a quella di milioni di emigranti italiani vissuti dignitosamente con la tenacia del lavoro e dei sacrifici, assolutamente straordinaria e persino romanzesca è la storia dell’impresa che lo ha reso celebre: la costruzione delle Watts Towers, che lo ha impegnato ininterrottamente (“every day, every moment…in the light and in the darkness”, recita un documentario prodotto in California nel 1957) per 33 anni, dal 1921 al 1954, nel quartiere multietnico di Watts, periferia di Los Angeles. Nello specifico: 7 torri di acciaio, rivestite con oltre 100mila pezzi di vari materiali, che Rodia si procurò di volta in volta per strada, sui vecchi binari ferroviari, sulle spiagge, presso il vicinato ed in mille altri modi. La torre più alta (30 metri) contiene il pilastro di cemento armato più sottile al mondo. “A spider in a web”, un ragno nella rete, la definì il muratore di Serino, consapevole di aver portato a termine qualcosa di speciale, che addirittura “they never got’em in the world”, mai vista al mondo, come confidò in un’intervista rilasciata pochi anni prima della morte. E diventata, oggi, una delle più originali e conosciute al mondo, che molti studiosi hanno già proposto all’Unesco come patrimonio dell’umanità. Le vicissitudini legate alle Watts Towers, come è stato sottolineato a Calitri, meriterebbero la penna di un grande narratore, o lo sguardo per immagini di un regista di vaglia. Per citarne solo le fasi salienti, risaltano tre date-chiave: il 1957, l’anno in cui l’amministrazione di Los Angeles fu ad un passo dall’abbattere le torri; il 1961, quando professori e studenti dell’Università di Berkeley tributarono a Simon Rodia una standing ovation; e il 1965, che segnò – ad agosto, un mese dopo la scomparsa del suo costruttore – la definitiva salvezza delle Watts Towers. Una straordinaria e ormai inaspettata affermazione per l’umile e tenace operaio italiano, costretto ad attraversare l’oceano per un po’ di pane e lavoro, che nel giro di pochi anni si ritrovò ad essere considerato, da “an incomprensibile crazy man” (un soggetto misterioso in preda alla follia) a “still man”, uomo d’acciaio e genio creativo dell’arte popolare contemporanea, addirittura degno di essere accomunato ai geni della civiltà italiana come Michelangelo, Colombo, Galileo e Marco Polo: i miti di Simon Rodia e di tanta parte della comunità italiana d’America. Ed è in questa versione che lo scoprirono i Beatles (grazie al loro amico e collaboratore Paul Blake, ipotizza con rigore analitico e documentario Michelangelo Iossa) e ne consolidarono definitivamente, con l’impatto mediatico della copertina di Sergent Peppers’s, la fama di “mito” internazionale del Novecento. Con la convinta approvazione del popolo di lavoratori, studenti, immigrati, latinos, al quale Rodia aveva voluto dedicare il suo capolavoro, intitolandolo Nuestro Pueblo. Che ora, secondo molti studiosi, per l’identità degli Stati Uniti conta quasi come la Statua della Libertà. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Paolo Speranza Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Museo del Sannio, do... Articolo Successivo Feudo Apiano, la sfi...