Di Loredana Zarrella A tavola, Lifestyle 19 gennaio 2021 Non è un semplice formato di pasta ma un condensato di tradizioni, simbolismi e rituali che affondano le loro origini almeno un paio di secoli or sono. Sono le “cannazze” di Calitri, piatto tipo e “rituale”, per l’appunto, regine delle feste e degli sposalizi in quell’angolo dell’Irpinia che da lontano appare come un dipinto ad acquerello con tante casette colorate, una accanto all’altra, una sopra l’altra. Precisamente, siamo su un colle che si eleva tra la vallata dell’Ofanto e quella del suo affluente Cortino, ai confini con la Basilicata. È qui, in questa terra di frontiera ricca di storia e memore di antichi fasti, nota anche come la Positano d’Irpinia, che nascono le cannazze, pasta simile agli ziti condita con ragù e abbondante formaggio. Più precisamente il dialetto calitrano interpreta con questo appellativo i mezzi ziti, ossia un tipo di pasta di grano duro di forma allungata, tubulare e cava e con superficie liscia come gli ziti ma di calibro minore. Così, accanto alle interessantissime vicissitudine storiche, dal Neolitico all’epoca d’oro sotto il dominio dei Gesualdo, e accanto all’architettura fatta di archi, logge, sottopassi, singolari portali e mascheroni in pietra, c’è anche la gastronomia locale a tenere alta la fama di Calitri. Tanti i prodotti tipici preparati ad arte, come il caciocavallo, il pane, i salami e le salsicce. Tante le specialità, come le “scarpegghie”, frittelle ricoperte di miele, cosparse di zucchero o bagnate nel vino cotto, dolce povero della tradizione popolare preparato in occasione delle feste natalizie. Il piatto per eccellenza, che contraddistingue Calitri, sono però le cannazze, tipico della domenica e delle feste. Questi mezzi ziti, detti anche mezzani, trafilati al bronzo e spezzati rigorosamente a mano, sono preparati in casa o proposti nei vari ristoranti del posto, alcuni di cui allestiti nelle tipiche e vecchie grotte di tufo. L’esperienza non può che trasformarsi in una vera e propria suggestione per il palato e per la vista! L’augurio è che, dopo l’emergenza epidemiologica da Covid-19, tutti questi ristoranti possano vivere una nuova stagione e offrire la loro maestria nell’arte culinaria a vecchi e nuovi avventori. Intanto, a Natale, come ogni festa, le cannazze sono le regine di ogni casa. Per tradizione vengono servite nelle “spasedde”, ossia grosse zuppiere di ceramica bianca dalle quali ogni commensale preleva la sua razione di pasta. Chi vuole può aggiungerci sopra un po’ di peperoncino in polvere. Il segreto di questo piatto semplice ma irripetibile altrove sta nel ragù tipicamente calitrano, con involtini di carne di vitello, passata di pomodoro locale, altri tagli di carne, erbe aromatiche del territorio e una miscela misurata di formaggi vaccini e pecorini. Ma quali sono le origini delle cannazze? Il 1700 è il secolo di riferimento. A Calitri, infatti, già nel 1749 esisteva una manifattura che si serviva di canne sulle quali la pasta veniva messa ad asciugare. Era un’attrezzatura – la cui vendita risulta da un atto del notaio in Calitri Eligio Rinaldi datato 26 settembre 1749 – installata all’epoca nella “casa bassa avanti la chiesa parrocchiale di San Canio”, che fu il primo pastificio di Calitri a produrre le “cannazze”. Una volta, quando gli abitanti non potevano permettersi la carne bovina, il ragù delle cannazze veniva tirato con la carne di gallina. Era il cosiddetto piatto del contadino preparato con un sugo che richiedeva una cottura molto lunga. Questi maccheroni, dalla forma lunga e tubolare, che veniva messa a essiccare sulle canne, diffusa anche a Napoli, vengono chiamati ziti perché nel dialetto meridionale la zita è la sposa, la vergine, e le cannazze sono il piatto tipico dei matrimoni di una volta, quando i banchetti duravano anche due giorni. Nell’immaginario collettivo a questa pasta viene associato un profondo significato simbolico e rituale. Anche in dialetto calitrano la sposa e lo sposo sono chiamati zita e zito. Lo stesso involtino di carne legato dallo spago richiama alla mente il “ballo r’ li zit” durante il quale gli sposi ballano stretti stretti circondati da parenti e amici che li avvolgono con stelle filanti (“r’zaharèggh”). In pratica le cannazze non erano solo il piatto tipico dei banchetti di nozze ma costituivano anche la metafora dell’unione vissuta attraverso il rito collettivo. Oggi la festa e il rituale che passano attraverso questa pasta si rinnovano assumendo nuovi e fecondi significati. La metafora è sempre la stessa: il rito unisce, suggella i giorni di festa, accompagna il passaggio verso nuovi, inediti sposalizi, di sapori, tradizioni, ritrovate armonie familiari. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Loredana Zarrella Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente ORZELLECA 1940-2020:... Articolo Successivo PASTA ARMANDO nuovam...