Di Fiorenzo Iannino Storia, Territorio storia, territorio, vocazione territoriale, xd magazine 10 febbraio 2018 Lapio, il paese dei Filangieri, tende sempre più ad esprimersi attraverso la produzione vitivinicola. Del resto, il suo Fiano vanta radici remote nel tempo. Senza voler scomodare storie (o leggende) relative al periodo greco-romano, di sicuro la sua produzione è testimoniata sin dal medioevo, allorché il monastero benedettino di Montevergine, ispirandosi alla riforma dei confratelli Certosini di Cluny, si affermò come centro propulsore di una rinnovata viticultura, che puntava alla riconversione delle numerose terre incolte o malcoltivate, passate sotto il suo dominio. I frati di Mamma Schiavona rimisero in moto una più diffusa ed organica produzione vitivinicola. Tra i fulcri territoriali della loro innovativa strategia rientrò a pieno titolo la media valle del Calore, con gli assolati e fertili colli di Lapio e Taurasi: non a caso, tra Duecento e Trecento, in quell’area prosperò l’importante dipendenza verginiana di Santa Maria de Flumine, che poteva vantare il possesso di non pochi terreni dislocati tra le due sponde del fiume. In questo contesto di rinascita, la cosiddetta “uva latina” trovò (o ritrovò) a Lapio l’ambiente adatto per prosperare rigogliosa. Il Fiano del convento Tra Cinquecento e primo Seicento, mentre il paese cresceva in popolazione e attività, la viticultura era ormai una consolidata realtà, anche commerciale. Ne troviamo conferma anche in un noto documento della Sommaria risalente al 1592: “L’Università di Montefusco ha ottenuto regio assenso su la gabella del vino per far pagare carlini quattro per ogni soma che entra nella terra. Ora molti particolari di Lapio portano il vino ma non vogliono pagare perché dicono di venderlo al minuto” . Intanto, tra i maggiori produttori di vino si era affermato il convento francescano di Santa Maria degli Angeli che aveva acquisito numerosi terreni, dislocati nelle migliori contrade del territorio lapiano. E così, alcune delle più fertili e redditizie piantagioni di uva latina finirono proprio sotto la sua autorità: basta ricordare i campi delle contrade di San Felice, Tognano e la cosiddetta Selva del Convento. Di particolare pregio era poi il vigneto impiantato nei pressi della “masseria” di Toppolo d’Angiolo (l’attuale “Casale Monaci”), vero fulcro della potenza economica dei frati. Le ingenti risorse del convento dovevano essere ben note allo storico frà Scipione Bellabona che, appartenendo allo stesso ordine, frequentò di sicuro Lapio (qualche storico ipotizza che vi esercitò anche il guardianato). Di sicuro l’erudito monaco ne apprezzò il buon Fiano da cui, a suo parere, in epoca longobarda derivò proprio il nome del paese: “In detti tempi – scrisse nei suoi famosi “Raguagli della città di Avellino” pubblicati nel 1656- in tre luoghi tre castelli per difesa della lor città tenevano l’avellinesi [ …] ed il terzo dove ora è l’Apia, vicino al Monastero di Santa Maria dell’Angioli nel luogo detto gli Marmori. In questo luogo, e quasi in tutto il territorio d’Avellino si produceva il vino detto Apiano, dà Gentili scrittori lodato, e tanto in detto luogo, quanto in questa Città si produce, e per corretta favella chiamano Afiano, e Fiano; il nome d’Apiano, dall’Ape, che se mangiano l’uve, gli fu dato”. Non di solo bianco Nel 1566, il lapiano Angelo Boniello dichiarò dinanzi ad un pubblico notaio di possedere una “vigna vitata de vite de aglianico et fiano”. Il primo gennaio di due anni dopo, il sacerdote don Gregorio Caprio, donò al nipote Giovan Giacomo “alcune sue vigne site in Lapio e piantate con viti di uve fiano ed aglianico”. In un successivo documento del 1580, il commerciante Gian Pietro Vicario dichiarò di “havere dato ad mastro Ferrante Coccena uno paro de fiano et un altro de russo”. I documenti confermano che da sempre, in paese, il Fiano ha prosperato in simbiosi con l’aglianico (non è un caso che il territorio ricade pure nella nobile area del DOCG “Taurasi”). Di più, in determinati periodi storici, la produzione e la commercializzazione del rosso sopravanzò di gran lunga quella del bianco. Fu così nel secondo Ottocento e ancora nei primi decenni del Novecento, allorché i vini irpini cominciavano ad essere richiesti dai mercati settentrionali ed anche stranieri (ma la produzione di Fiano rimase sempre tipica, se nel 1879 Raffaele Valagara, riconoscendo che insieme a pochi altri centri Lapio era “da considerarsi di prima importanza per la bontà dei vini che produce”, annotò che proprio il Fiano era il vino più noto del paese). Nel 1911 il rosso lapiano ottenne anche un prestigioso riconoscimento internazionale: “Siamo lieti pubblicare- leggiamo in una cronaca del tempo- che il Giurì della Esposizione Internazionale di Torino ha conferito la medaglia di argento di prima classe al signore Antonio Cristoforo per il vino di Lapio, tipo aglianico, giudicato di ottima qualità e pregevolissimo, quale vino scelto da pasto. Il premio, ben meritato, fa onore al paese, che produce tale squisito prodotto agricolo, e al Cristoforo, che lo ha confezionato con rara accuratezza e che noi incoraggiamo a proseguire con maggiore lena la via intrapresa”. Sulle ali dell’entusiasmo qualcuno auspicò finanche la fondazione di un “enopolio sociale allo scopo di produrre in molta quantità il tipo aglianico unico e costante”, che naturalmente non si verificò mai. Allora, quasi tutti pensarono di puntare sulle uve rosse: “Non vi è industria migliore che possa sorgere nell’agro di Lapio, sempre rinomato pei suoi vini poderosi; necessita, però, che sia confezionato il tipo aglianico in gran quantità e di qualità costante, come viene richiesto e ricercato dal commercio, attenendosi sempre alle norme dettate dalla nostra gloriosa Scuola di Viticultura ed Enologia, faro radioso di scienza agricolo-industriale”. Ma negli ultimi decenni del Novecento, soprattutto dopo l’istituzione del DOC, si è verificata una vera e propria rinascita del bianco che, come già ai tempi di frà Scipione, fa conoscere Lapio come terra del Fiano. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Fiorenzo Iannino Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente L’intervista a... Articolo Successivo Bozzelli e Negri, gl...