Di Paolo Speranza Storia, Territorio storia, territorio, vocazione territoriale, xd magazine 6 luglio 2017 Se Garibaldi, Mazzini, Vittorio Emanuele e Cavour, ognuno per la sua parte e spesso in contrasto tra loro, hanno fatto l’Italia, nessuno forse più di Francesco De Sanctis – col suo versatile impegno di patriota, ministro, educatore, giornalista, critico letterario, scrittore – ha contribuito all’altrettanto ardua impresa di “fare gli italiani”, ossia di dare ad essi una identità culturale, fatta di radici e prospettive comuni. Già nel centenario dell’Unità d’Italia, nel convegno promosso nel luglio 1961 a Torino dalla Comunità Europea degli Scrittori sul tema “Il contributo degli scrittori europei al Risorgimento italiano”, l’irpino De Sanctis (“massimo critico letterario del secolo passato”, come lo definì lo studioso russo Mikola Bajan) risultò tra gli autori più citati. Appena due anni prima, del resto, nella prefazione ad una antologia di Montale, Elio Vittorini aveva ribadito: “La Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, ecco qual è il libro classico che sa meglio raffigurare (anche se si ferma a metà Ottocento) gli interessi nazionali comuni ad ogni strato e gruppo del nostro popolo”. Nel convegno del ’61, come si legge nel n.9-10 della rivista “L’Europa letteraria”, quel giudizio positivo si estese anche alle opere di narrativa: “Fu lo studio delle opere di Francesco De Sanctis a farmi ben scoprire e valutare lo spirito del Risorgimento”, affermò tra gli altri lo scrittore bulgaro Nicolaj Doncev. E circa vent’anni dopo, il celebre storico inglese Denis Mack Smith, nell’introduzione al Viaggio elettorale edito da Passigli, formulò un’affermazione ancora più impegnativa: “De Sanctis fu in effetti, come scrittore politico, molto più efficace di Mazzini”. Nel ’95 un’ulteriore consacrazione in A colpi di voto. Le campagne elettorali tra storia e romanzo (Donzelli editore): “Il suo Viaggio elettorale – scrive l’autore, Mario Ajello – su e giù sgobbando per i monti e le contrade dell’Irpinia, resta un classico che si può leggere come un libro d’avventura. O come uno dei pochi racconti del secolo scorso, in cui l’Italia ufficiale e quella reale non facciano vita totalmente separata”. Alla luce di questi autorevoli precedenti, non stupisce più di tanto che la riscoperta, tardiva quanto convinta, del Viaggio desanctisiano da parte della società letteraria italiana abbia toccato il culmine con il suo inserimento fra gli “8 libri che hanno fatto l’Italia”, come titola un importante numero monografico di “Nuovi argomenti”, il trimestrale fondato da Alberto Carocci e Alberto Moravia. La ri-lettura del classico desanctisiano fu affidata a una delle migliori scrittrici italiane contemporanee, da poco scomparsa: Francesca Sanvitale. Che confessa di essersi riavvicinata al Viaggio elettorale nell’età matura, con esiti inimmaginati rispetto al primo approccio universitario: “Dunque scoprivo una intelligenza narrativa, un disegno di struttura che allargava l’esperienza ultima ad altre esperienze importanti del passato. I ricordi del viaggio elettorale, mescolati a quelli dell’infanzia e della giovinezza, degli amori, degli amici, di Torino e dell’inizio della carriera, venivano compresi in una visione della vita, forse senile ma poetica, simile a un cerchio che si ricongiunge: Torino/Torino e in mezzo, insieme alla dedizione politica, la sua vita di uomo e di letterato. In controluce la ritrovata terra d’origine”. Il diario di quella travagliata esperienza politica del 1875 rivela alla scrittrice un meridione sconosciuto, povero ma dignitoso: nel percorso da Rocchetta ad Avellino i lettori finiscono per immergersi “in una regione di tradizioni familiari, schiva, fitta di paesi antichi, l’uno a ridosso dell’altro, con vecchie chiese di linee schiette e semplici, divisi da strade difficili, da maggiorenti spesso nemici e spesso temibili. Si vede la povertà, non si vedono la ricchezza e il potere eppure pare che esistano. Il paesaggio adesso è aspro, più misterioso”. E’ merito di uno scrittore acuto e sincero come De Sanctis l’aver reso quel microcosmo, così particolare, specchio e metafora della società e della politica italiana in età liberale. E fu l’autore stesso il primo ad avvedersene, quando, nell’introduzione al Viaggio, osservò: “Avevo imparato più in quei paeselli che in molti libri. E dissi: questa non è più storia mia; è storia di tutti”. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Paolo Speranza Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Brigantesse per amor... Articolo Successivo Don Aniello Manganie...