Di Franco Buononato Storia, Territorio storia, territorio, vocazione territoriale, xd magazine 18 settembre 2018 “Conto sulla fede e sull’abnegazione di tutti”, disse la sera dell’8 novembre del 1917, quando assunse la carica di Capo di Stato Maggiore di quello che rimaneva dell’esercito italiano dopo la disfatta di Caporetto. E lui, Armando Vittorio Antonio Giovanni Nicola Diaz, napoletano, non immaginava neppure che di lì a un anno, avrebbe firmato il bollettino della Vittoria sull’impero Austria-Ungarico che chiudeva con una frase rimasta scolpita per sempre nella memoria degli italiani: “I resti di quello che fu uno dei più grandi eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranze le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza”. L’intero bollettino, a guerra finita, fu poi vergato nel bronzo ricavato dalla fusione dei cannoni austriaci abbandonati dal nemico in fuga. A cento anni da quelle giornate eroiche, quel bollettino ossidato dal tempo è tuttora leggibile in migliaia di edifici militari e pubblici in tutta Italia. Armando Diaz era nato a Napoli, in un palazzo all’inizio del Cavone, l’attuale via Correra, a pochi metri da Piazza Dante, dove quasi inizia via Toledo. E napoletano era anche E. A. Mario, al secolo Giovanni Ermete Gaeta, dipendente delle Poste, che nella “Leggenda del Piave” sintetizzò l’impresa di Vittorio Veneto e gli atti di eroismo dei nostri soldati nella Prima Guerra Mondiale, dal 24 maggio 1915 al 4 Novembre 1918. Un’altra celebre e struggente canzone, ‘O surdato ‘nnammurato, fu scritta nel 1915 dal poeta Aniello Califano, nato a Sorrento e morto a Sant’Egidio di Monte Albino, nell’agro Nocerino-Sarnese. Del brano, ci rimane una indelebile immagine in un film con protagonisti Anna Magnani e un giovanissimo Massimo Ranieri che cantavano la canzone di Califano ai nostri militari in uno spettacolo al fronte. Un conflitto durato tre anni e mezzo e che il 4 novembre 2018 compie un secolo. Una guerra che vide per la prima volta scendere in campo gli Stati Uniti d’America al fianco di Francia, Inghilterra e Italia contro l’Austro-Ungheria e Germania. Anni di stenti e sangue, milioni di uomini a marcire nelle trincee, tra memorabili scene di eroismo e di attaccamento alla bandiera. E facile ricordare Cesare Battisti, Fabio Filzi, Enrico Toti e Nazario Sauro o le gesta di Gabriele D’Annunzio, il Vate che partecipò alla Beffa di Buccari e con il suo aereo sorvolò Vienna, lanciando volantini inneggiando alla futura vittoria dell’Italia e invitando i sudditi di Francesco Giuseppe a ribellarsi e dire basta al conflitto. Una guerra vinta dispiegando circa sei milioni di uomini. Forte il tributo di sangue: un milione di combattenti restarono feriti, altri 651mila non tornarono più alle loro case. E di origine campana era quasi la metà dei morti in un conflitto che in molti definirono Quinta guerra d’Indipendenza. E l’esercito non poteva adesso non onorare adeguatamente i suoi caduti campani, affidando al Comando Forze Operative del Sud una serie di iniziative, coordinate dal tenente colonnello Antonio Grilletto. Una vittoria pagata a caro prezzo, quasi quaranta mesi di lacrime, fame e sangue. Lacrime di donne e di uomini, di mamme e di papà che non rividero più i loro ragazzi, mogli che non abbracciarono più i loro mariti e figli che mai più avrebbero rivisto i loro padri e che sarebbero poi stati indicati come “orfani di guerra” e per questo avevano l’amaro diritto ad una riserva di posti nell’amministrazione dello Stato. Una guerra vinta che portava, quindi, un nome e un cognome: Armando Diaz. Il generale Diaz aveva 56 anni quando fu chiamato dal re Vittorio Emanuele III al posto di chi fu ritenuto il maggiore responsabile di Caporetto, Luigi Cadorna, figlio del generale Raffaele Cadorna. Caporetto poteva significare la definitiva sconfitta dell’Italia, Stato ancora giovane. L’esercito fu decimato, i superstiti erano stanchi, impauriti. In molti tentarono la diserzione e spesso venivano fucilati sul posto. Una tragedia nella tragedia, italiani che ammazzavano i fratelli italiani. Una situazione grave ben nota ad Armando Diaz che – benché alto ufficiale – aveva combattuto nelle trincee, fianco a fianco con le truppe e ne comprendeva l’animo, dilaniato da mille sofferenze. Diaz si diede subito da fare per risollevare il morale dei suoi uomini, iniziando con il fornire un rancio più adatto a chi doveva combattere, rischiando la vita minuto dopo minuto. Poco a poco si tentava di dimenticare le orribili scene di Caporetto. Nel contempo si lavorava in silenzio e d’astuzia per lo scontro finale, per la madre di tutte le battaglie che doveva lavare l’onta subita. Per rinfoltire i ranghi dell’esercito, furono chiamati al fronte i più giovani, i “Ragazzi del ‘99”. E venne la battaglia sul Piave, fiume che diventò rosso per il sangue versato dai combattenti, dell’una e dell’altra parte. Un Piave che infine mormorò fiero e sicuro: “Non passa lo straniero”, come cantò E. A. Mario. Una guerra sanguinosa e costosissima, da qualcuno definita inutile, che certamente alimentò risentimenti e creò le condizioni per l’avvento del fascismo che portò l’Italia alla Seconda Guerra Mondiale. Ma questa è un’altra storia. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Franco Buononato Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Filippo Liverini, pr... Articolo Successivo La banda dei brigant...