Di Andrea Massaro Storia, Territorio storia, territorio, vocazione territoriale, xd magazine 13 febbraio 2017 Il martedì grasso conclude il festoso ciclo del Carnevale, avviato tra maschere, lazzi e suoni nel giorno di Sant’Antonio Abate. In questo giorno, dedicato anche ad una ricca e ipercalorica tavola sulla quale troneggia la lasagna accompagnata anche da “salsiccia, pepaine, chiacchere” e altri prodotti riservati alla particolare giornata. Il periodo che indulge con facilità all’allegria e alla trasgressione, ha trovato nelle istituzioni governative e locali varie direttive e prammatiche severe al fine di evitare abusi e sconci di varia natura. Singolare e significativo appare un apposito regolamento predisposto per la disciplina dell’uso delle maschere nel periodo di Carnevale. Allo scopo di prevenire eventuali disordini il 21 gennaio 1822 l’Intendente di Principato Ulteriore, affida alle stampe un “Regolamento per le Maschere nel Carnevale”, nel quale è prescritto che “per il Carnevale è permesso alle maschere di girare per la Città”. Come vedremo nelle successive norme, il ferreo documento fu varato un periodo particolare della storia del Regno delle Due Sicilie. Appena due anni prima, nel luglio del 1820, proprio dal capoluogo irpino prese avvio quella che sarà ricordata nella storia d’Italia come la “primavera risorgimentale” che ebbe per scenario la futura Piazza della Libertà di Avellino con i moti del luglio di quell’anno. Il pugno di ferro della restaurazione borbonica andò a colpire anche il tradizionale carnevale. Nel regolamento è riportato a chiare lettere che le persone durante le domeniche non possono travestirsi nelle ore mattutine, mentre è consentito al termine delle funzioni sacre. Altro divieto riguardava il mascheramento sotto le sembianze dei “Ministri della Santa Religione, dei Magistrati, dei Funzionari pubblici e dei Militari”. A questi si aggiungeva quello di non indossare travestimento che “offendesse in menoma guisa il costume, e la decenza”. Anche la chiesa rafforzava i freni inibitori attraverso la funzione delle “Quarantore”. Nel 1831 il Decurionato (Consiglio comunale) precisava che la devozione degli ultimi tre giorni di Carnevale richiama in Avellino numerosi cittadini. Non celebrandosi tale devozione “porterebbe un malcontento generale”. Gli amministratori, al fine di non deludere gli avellinesi, i quali in mancanza si sarebbero portati in Atripalda, producendo “non lievi inconvenienti”, si adoperarono con solerzia. Per l’occasione furono chiamati i più forbiti predicatori del clero cittadino e dei vari conventi. La Cattedrale fu addobbata con quella “corrispondente pompa” e fu eseguita la “Musica in grande Orchestra”. Nel 1827, ancora, le maschere potevano partecipare alla festa da ballo nel Teatro di Piazza Libertà. Per questo, nelle domeniche del periodo del carnevale, fu “permesso a’ soli mercanti, che affittavano abiti da maschere, di tenere aperte le loro botteghe”. Un’altra prescrizione prevedeva il divieto di lanciare “fagioli, legumi e altri piccoli oggetti” Era permesso soltanto il lancio dei confetti. In tale periodo va affermandosi sempre più nelle strade e nelle piazze la rappresentazione della “Zeza” la cui tradizione è stata mantenuta in vita fino ad oggi dagli abitanti di Bellizzi, ai quali spetta il merito di averla portata a livello nazionale e internazionale. Agli inizi del ‘900 il Prefetto di Avellino prescrisse in un’ordinanza, che era “proibito mascherarsi in modo da destare scandalo o ribrezzo… e di tenere la maschera al volto dopo un’ora dal tramonto del sole”. Una stretta alle maschere e al travestimento fu perseguito anche dal fascismo durante il Ventennio. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Andrea Massaro Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Alfonso Cerulo, il b... Articolo Successivo L’arcivescovo ...