Di Fiorenzo Iannino Storia, Territorio cultura, Irpinia, storia, territorio, vocazione territoriale 2 maggio 2017 Monsignor Giacinto Della Calce, nato nel 1649 in una famiglia della piccola nobiltà salernitana e sacerdote dell’ordine teatino, fu vescovo di Ariano dal 3 giugno 1697 fino alla morte, avvenuta il 25 luglio 1715. Giunto sul tricolle, il vescovo si impegnò a fondo per la ricostruzione del seminario diocesano, semidistrutto dai terremoti del 1688 e del 1694, riaprendolo solennemente il 29 novembre 1698. Non si perse d’animo nemmeno all’indomani dell’ancor più disastroso sisma del 14 marzo 1702, che arrecò notevolissimi danni alla cattedrale, riconsacrata il 23 ottobre 1713. Due anni dopo vi fu sepolto con “le pompe funerali dovute” alla dignità episcopale, come aveva espressamente richiesto nel suo testamento. Le donazioni alla chiesa e alla comunità arianese Col testamento, dettato e sigillato nel palazzo vescovile il 18 luglio 1715 alla presenza dell’arciprete canonico Vincenzo Intonti ed altri testimoni laici, il vescovo confermò concretamente il rapporto privilegiato con il suo capitolo, che peraltro rappresentava le più notabili famiglie di Ariano: “istituisco, creo ed ordino mio erede universale e particolare la predetta mia Santa Chiesa Cattedrale e per essa il Reverendo Capitolo”. Alla cattedrale destinò ancora mille ducati per l’acquisto di “di suppellettili e paramenti sacri”, mentre “quello che resta della eredità” doveva essere impiegato per curare gli “ornamenti” e gli “accomodi” alla struttura. Nella stessa chiesa si trovava anche la prediletta cappella dedicata a san Gaetano, da lui fondata per diffonderne la devozione nella comunità arianese: ad essa assegnò cento ducati per la celebrazione perpetua di messe settimanali ed altri cinquanta ducati per l’acquisto di suppellettili e per mantenerne il decoro. I lasciti non si limitarono alla sola cattedrale. Monsignor Della Calce elargì un’elemosina di cento ducati anche ad altre chiese e confraternite della città, in cambio di messe annue per la sua anima (San Sebastiano, Santa Maria dell’Arco, San Giacomo, Santa Maria della Concezione, Santa Maria Annunziata, Santa Monica, Monte Calvario detto anche Monte dei Morti). La chiesa collegiata di Sant’Angelo, di cui era egli stesso titolare, ebbe cinquanta ducati, oltre i “paramenti et addobbi che sono nella seconda anticamera dove sta la cappella”. Il prelato non dimenticò nemmeno la chiesa romana di sant’Andrea della Valle, sede centrale dell’ordine teatino, cui riservò i “beni che mi portai dalla mia religione quando fui assunto a questo Vescovado” (si trattava di un crocifisso di avorio, un quadretto di rame della vergine, una cornice di ebano, e vari “libri spirituali”). Infine, destinò la non trascurabile somma di duemila ducati alla fondazione di un “monte di maritaggi” con l’intento di arrecare sollievo materiale alle povere ed oneste ragazze arianesi. Indicò anche le modalità di gestione della pia istituzione: con gli interessi del capitale, che doveva essere investito in “compra di annue entrate”, due canonici del capitolo nonché il sindaco e gli eletti dell’università dovevano assegnare doti annue di quindici ducati a ragazze estratte a sorte da un elenco preventivamente compilato da tutti i parroci della città. In caso di matrimoni sterili, la sposa beneficiata doveva restituire la dote al monte che, dal nome del fondatore, venne comunemente chiamato “giacintiano”. Generoso con i collaboratori, parsimonioso con la famiglia Ancor prima dei lasciti, il vescovo aveva dato precise indicazioni sui contanti e l’argenteria custoditi in palazzo: “nella mia eredità vi sono di monete di argento in alcuni sacchetti ducati 5985 [d’argento] e ducati 54 di monete d’oro, come anche l’argento lavorato descritto nell’accluso foglio et ogn’altra cosa secondo l’inventario che dovrà farsene” (l’argenteria personale, catalogata quello stesso giorno, risultò composta da: “Una cascia o conchiglia col suo boccale per la barba; una fruttiera; uno baule; due bauli grandi e quattro mezzani; venti piatti; una saliera; un calamaio e campanello; quattro candelieri con li cappelletti e due smorza candele; due sottocoppe; due cocchi anni et uno forcine; otto posate meno un cortello”). La buona disponibilità di liquidi e capitali gli permise di essere generoso con collaboratori e servi. Innanzitutto, si dichiarò ben soddisfatto per l’assistenza e i servizi prestatigli dal primicerio don Antonio Conversi, amministratore della mensa vescovile: gli assegnò cinquanta ducati e anche un orologio” a mostra” et un “orologetto di saccoccia”, il baule con tutte le biancherie ivi riposte e le altre conservate nel palazzo. Di più, come ulteriore e tangibile testimonianza di affetto, gli lasciò la “baracca che si fece a tempo del terremoto con le pietre che furono del detto signor primicerio”. Al vicario generale, don Rosario Riccio, lasciò cinquanta ducati per aver egli “esercitato la carica da me conferitali con ogni attenzione vigilanza e rettitudine”. Il segretario, don Giovan Battista De Iulii, ebbe quindici ducati. A Gioacchino Flammia, che lo aveva interamente soddisfatto “per quagli anni che mi ha servito”, lasciò invece “la lettica con li due muli giovani da soma et tutti gli guarnimenti et acconci di detta lettica”. Altre donazioni furono riservate ai camerieri Onofrio Aliprandi (dieci ducati) e Domenico Speranza (venti ducati), al cocchiere Giovanni Sanità (trenta carlini), ai servitori Domenico Barra (trenta carlini) e Giovanni Grimaldo (venti carlini), al cuoco Domenico di Stasio (venti carlini), al cursore Petrillo Zemuso (cinque carlini) e ad altri tre imprecisati cursori (che ebbero un tarì ciascuno). Occupandosi dei familiari, monsignor Della Calce ricordò innanzitutto di aver rinunciato “ai beni che mi spettavano dalla Casa a tempo che entrai nella Religione de’ Teatini”, in cambio del dovuto vitalizio che sarebbe cessato al momento della sua morte. In definitiva, non fu particolarmente generoso con loro: al nipote Prospero donò venti ducati, mentre le donne ebbero in tutto trenta ducati (erano le sorelle Maria Teresa, suor Annella e suor Caterina e le nipoti Maria Angelica, Maria Felicia e Peppa). Interessanti, per la ricostruzione delle controverse dinamiche familiari e per avere un’idea delle attività imprenditoriali dell’alto prelato, sono le note dedicate ad un altro nipote, di cui sembrava non fidarsi eccessivamente: “confermo la donazione delle pecore, che anni sono feci a favore de signor don Ettore Della Calce mio nipote, e voglio che su quella abbia il dovuto effetto, nonostante la causa e lite che io aveva intrapresa con detto don Ettore mio nipote, rinunciando a tutti gli atti e lite[…] di nuovo lascio iure legati le dette pecore al detto don Ettore, volendo ed ordinando che il signor Domenico Bruno, che presentemente le tiene a società, subito seguita la mia morte debbia consegnarle al detto don Ettore, senza compenso dalla detta mie erede, ma che detto signor don Ettore debbia farne cautela di ricevuta a favore di detto signor Bruno e debbia dichiarare di non pretendere gli frutti di dette pecore dal giorno che feci la donazione suddetta, atteso detti frutti detto signor Bruno l’ha soddisfatti in potere di me Monsignor Vescovo interamente per tutto l’anno passato 1714. E di essi ne lo quieto in ampia forma. Dichiaro ancora che per questo anno ho ricevuto dal detto signor Bruno per li frutti di dette pecore la lana di maggio, caso rotola trecentonovanta uno incluse le ricotte e ducati ventinove e grana quindici per la vendita delli agnelli di questo anno, volendo et ordinando che detto don Ettore volendo di pigliarsi dette pecore, debbia quietare al detto signor Bruno li frutti di dette pecore che pretendeva dal medesimo, quali, come ho detto, il signor Bruno l’ha soddisfatti in potere mio e che in altro caso detto signor Bruno non possa essere costretto a consegnar dette pecore, ma la detta Chiesa Cattedrale mia erede, sia tenuta difenderlo, quando detto signor Ettore volesse pretendere detti frutti da me percepiti”. La “cappa magna” per il Capitolo Il vescovo concesse ai canonici della cattedrale altri mille ducati affinché potessero finalmente ottenere l’autorizzazione ad indossare la tanto sospirata “cappa magna” (“a ciò restino più decorati e spero che ciò ridondi maggior culto et onor di Dio”). La richiesta era stata già indirizzata in Vaticano col suo assenso. Il privilegio era assolutamente formale ma particolarmente ambito in un’epoca in cui l’apparenza ed il fasto barocco avevano un valore preminente, sia nella società civile che ecclesiastica. Per ottenere il placet di papa Clemente XI, i canonici e il vescovo esaltarono meriti e ricchezze della maggiore chiesa arianese. Citarono innanzitutto le tante reliquie conservate in preziose teche d’argento, tra cui spiccavano le Sacre Spine e il frammento della Santa Croce, venerate con grande partecipazione popolare. Ricordarono anche il “numero copioso” della popolazione e la gran quantità di chiese (parrocchiali e non), confraternite e conventi censiti nella città, l’unica del Principato Ultra a godere del privilegio di città regia. Insomma, i titoli vantati per ottenere la “cappa” erano più che sufficienti. E così, l’autorizzazione fu finalmente concessa il 9 settembre 1716, a poco più di un anno dalla morte del vescovo che tanto si era prodigato con la curia romana. La cerimonia ufficiale di consegna si tenne in cattedrale il due febbraio 1717, in occasione della festa della Candelora. All’evento partecipò una folla strabocchevole. In prima fila si notarono i dottori in “utroque iure” don Ottavio Anzani, don Ottavio De Palma, don Nicola De Miranda ed i “signori” Angelo De Stefano, Marco Bevere, Nicola Caginella. Dinanzi a tutti venne solennemente letta la bolla papale in cui, tra l’altro, si descriveva dettagliatamente la cappa, che poteva essere usata in ogni tipo di cerimonia: il cappuccio era di color violaceo, con pelli di ermellino con pois di color cremisi; il rocchetto poteva avere maniche estive o invernali. Alla fine della cerimonia si cantò un solenne “te deum” di ringraziamento mentre uno scampanio festoso si diffondeva dalla città al contado. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Fiorenzo Iannino Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Il bicentenario di F... Articolo Successivo Brigantaggio, l’altr...