Di Loredana Zarrella Cultura, Spettacolo 14 gennaio 2021 “Dimmi il tuo nome, lo trasformerò in una composizione musicale. Se vorrai, potrai inviarmi, in cambio, un dono, un simbolo”. È l’iniziativa del giovane e talentuoso pianista Luigi Di Gennaro lanciata sui social e raccolta già da tantissimi, in tutta Italia e fuori i confini nazionali. L’idea del trentaduenne originario di Mercogliano, noto come Luis per le sue radici sudamericane – il nonno era argentino – si rifà alla già nota crittografia musicale, una metodica con cui si sono cimentati numerosi illustri compositori attraverso i secoli, come Jonathan Sebastian Bach, Robert Schumann, Ludwig Van Beethoven, Franz Listz, Ferruccio Busoni, Maurice Ravel e Francis Poulenc. La tecnica è quella del crittogramma musicale, ossia una sequenza di note che codifica un contenuto extra-musicale, tipicamente un testo, tramite una relazione logica. Il componimento su misura realizzato da Luis tiene conto della sonorità dei nomi, dei respiri che si fanno quando un nome viene pronunciato. A ogni lettera corrisponde una nota. Se all’interno di uno stesso nome ci sono lettere che si ripetono, si usano le ottave; così Luis decide se ribattere la stessa lettera-nota in modo identico o modificarla, aggiungendo sempre un po’ di improvvisazione. Il risultato è un’opera inedita e originale che arriva allo speciale “committente” 2.0 via whatsapp o attraverso i social network insieme allo spartito. In questo modo, si potrà decidere di far suonare il proprio nome anche da altri. Diplomatosi al Conservatorio S. Pietro a Majella di Napoli, dal 2011 Luis Di Gennaro si dedica esclusivamente allo studio del jazz e alla musica contemporanea. Nel 2014 è vincitore del concorso “PianoForte Sostenibile”. Si è formato con maestri del calibro di Danilo Rea, Stefano Giuliano e Aaron Goldberg. Luis, come è nata l’idea dell’iniziativa “Io suono il tuo nome”? Quale la scintilla che ha dato vita a questo particolarissimo baratto culturale? L’idea di questa iniziativa è nata nel bel mezzo di una cena con Franco Arminio. A un certo punto ho pensato “se Franco Arminio lo fa con le poesie, io potrei farlo con la musica e, in particolare, con la musica attraverso i nomi delle persone”. In pratica ogni lettera corrisponde a una nota, tante note diventano una musica; io le mando su whatsapp e se tu vuoi – non è obbligatorio – puoi spedirmelo in vico Ferrari 4, a Mercogliano. È un modo di “arieggiare i paesi”. Si instaura, cioè, un ricambio di aria perché un prodotto nostro che nasce dall’Irpinia arriva, per esempio, a Pordenone, a Trieste o in Sicilia. La musica inizia a viaggiare grazie a un sistema semplicissimo di comunicazione ed è bello perché c’è uno scambio di vissuti, di emozioni. Ieri sera, per esempio, ero a cena con mamma e papà. Sulla tavola c’erano il vino che mi è arrivato dalla Toscana, il panettone da Siena. È uno scambio incredibile, per certi versi inaspettato. Come hanno risposto finora le persone? Quali sensazioni ti hanno comunicato? Per quanto tempo durerà “Suono il tuo nome”? Le persone che ricevono la mia composizione personalizzata mi dicono che è come se fosse una seduta psicanalitica. Ogni lettera corrisponde a una nota musicale secondo un vecchio sistema di composizione del Seicento e del Settecento; c’è il sistema francese, quello tedesco; io utilizzo una tabella che veniva utilizzata da Bach e altri compositori come Maurice Ravel. È un po’ come fanno i pittori che mettono la firma dietro al quadro o sul quadro. Johann Sebastian Bach firmava la sua musica mettendo il suo nome in musica. Secondo il sistema da lui utilizzato il suo nome, tradotto in note, era “SI bemolle, LA, DO e SI naturale”; chi ascolta Bach riconosce la sua firma perché queste note riecheggiano. È un antico sistema di composizione che io oggi applico unito alla tecnologia, utilizzando una tastiera collegata all’iPhone e mandando i pezzi creati attraverso whatsapp e i social network. Ci sono persone che mi chiedono il loro nome in musica dai luoghi più disparati, anche oltre i confini della Penisola. Per ogni composizione che mando sono curioso di sapere se sono riuscito a rispecchiare, in qualche modo, l’identità o lo stato d’animo. Quanto durerà questa iniziativa? Io spero per sempre! Anzi, mi auguro che venga copiata. “Arieggiare i paesi”, come hai sottolineato, implica uno scambio culturale a 360 gradi. A proposito di territori, cosa rappresenta per te l’Irpinia? Dalle tue riflessioni si evince un forte legame con le tue origini. È così? Esatto! Anche la musica, o la poesia, come quella di Franco Arminio, ma anche un vostro articolo, sono prodotti del nostro territorio. Sono cose che vanno valorizzate come non è ancora stato fatto finora. L’Irpinia? In questo territorio ci sono posti ancora vergini, inesplorati. L’archeologo ed epigrafista Carlo Franciosi mi portava da piccolo a vedere Abellinum e i numerosi centri archeologici dell’Alta Irpinia, tra cui Castelnuovo di Conza, che hanno un romanticismo incredibile. Amo l’Irpinia proprio per questo, perché noi abbiamo un museo a cielo aperto che ancora deve essere scoperto. La provincia, tra l’altro, è avida di persone, le vuole. La venuta del forestiero diventa un evento dalle nostre parti. La morte di un vecchio che si sedeva su quella stessa panchina diventa un evento perché muore un mondo che nelle grandi città, invece, passa inosservato. Facciamo un passo indietro. L’improvvisazione, il jazz e le contaminazioni musicali sono la tua cifra stilistica. Ma tutto parte dal tuo amore per il pianoforte, il tuo strumento d’elezione, il tuo compagno di vita… Quali sono stati gli incontri più importanti che hanno inciso sulla tua formazione musicale? Quando frequentavo la scuola delle Immacolatine vicino piazza Macello già guardavo con amore il pianoforte verticale nel salone; ricordo che non potevo toccarlo ma poi il maestro di musica mi fece suonare. Ecco, da allora il pianoforte rappresenta un compagno di vita che mi accompagna, appunto, dalle scuole elementari. Tra gli incontri più importanti e particolari c’è poi quello avvenuto durante la grande notte del cinema ad Avellino, nel 2006. Tra gli artisti c’era un grande pianista, Danilo Rea, che poi è diventato il mio maestro; suonava musiche rock come quelle dei Led Zeppelin. Io ero abituato alla concezione del pianista come esecutore di musica classica. Pensai, allora, di provare anche io a sperimentare. Da allora ho iniziato a suonare da solo in tutta Italia. Credo che noi pianisti dobbiamo essere grati a Danilo Rea perché, come Keith Jarrett in America, ha rivoluzionato il modo di suonare sdoganando il concetto tradizionale di concerti di pianoforte. Si può suonare il pianoforte per un’ora senza fare musica classica. L’improvvisazione è, poi, propria del jazz. Quando suono dal vivo non ho nulla di preparato; parto da alcune note, poi quelle note diventano la canzone di Marinella di De André oppure un pezzo di Tenco, o un brano standard jazz oppure uno dei Doors… Hai interpretato anche i brani di Fabrizio De André, omaggiandolo in giro per l’Italia. Come nasce l’ “incontro” dal punto di vista artistico con il grande poeta e cantautore genovese? Ero piccolissimo quando fui portato da mia madre al concerto che Fabrizio De André tenne a San Martino Valle Caudina nel 1991 nell’ambito del tour “Le nuvole”. Crescendo quella musica mi è rimasta dentro. Così nel 2014 feci il mio primo concerto tributo a De André, solo con pianoforte, alla Casina del Principe, ad Avellino. Inaspettatamente fu un successo, la sala era piena. Dopo questo concerto, che per me fu cruciale, ho continuato a interpretare i suoi brani in giro per l’Italia. Dori Ghezzi volle incontrarmi a Milano, presso la sede della Fondazione dedicata al marito, dopo aver saputo del mio omaggio musicale a De André in uno dei tram storici della città. Immagina la mia emozione! Fu fantastico! Io credo che se De André fosse venuto in Irpinia si sarebbe sicuramente innamorato di questa terra perché molto simile alla Gallura, cioè alla parte interna della Sardegna a cui si legò profondamente. Per tornare al mio “incontro” con De André, la canzone di Marinella, l’ultima incisione che ha fatto con Mina, è stata suonata anche da Danilo Rea, il mio maestro. A cosa stai lavorando attualmente? Cosa c’è tra i tuoi progetti futuri? Pochi giorni fa sono sbarcato su Spotify con il brano che si intitola “Almeno credo”. È un brano di Ligabue che ho suonato al pianoforte. È un pezzo che fa capire come un brano pop possa essere arrangiato in chiave jazz, cosa sdoganata ormai ma che ogni tanto bisogna ribadire. Finora non ho mai pubblicato un disco a mio nome ma tante collaborazioni con altri. Tra i miei progetti c’è quello di fare un disco dal titolo “Nomi” con i tutti i vostri nomi, quelli che ho suonato nel corso dell’iniziativa che ho lanciato. È un disco che potrebbe non esaurirsi mai, e ognuno potrà ascoltare il proprio pezzo su Spotify. Per il festival Piano City Napoli ho realizzato alcuni brani che verranno pubblicati. Ho registrato i pezzi a Napoli con un bravissimo fonico di Ariano Irpino, Antonio Pannese. Gli amici di Castelnuovo mi dicono, invece, “perché non suoni con il pianoforte nel borgo dove ormai non c’è più nessuno?” È una cosa che vorrei fare oppure, ancora, duettare con l’organo a canne di Cairano, anche da solo, a sorpresa, senza pubblico. Sono cose che farò, appena usciti dall’isolamento a cui noi tutti siamo costretti. Condividi con: Facebook Google+ Twitter Pinterest Loredana Zarrella Google+ Facebook Twitter linkedin Articolo Precedente Carte telefoniche pr... 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